Been Down So Long It Looks Like Up To Me

C’è il solitario lavoro di scavo di Salinger, la memoria precocemente fissata attorno al ricordo e alla celebrazione di un possibile modo di divenire adulti, Holden Caufield come giovane eroe senza qualità, quale avvenire si schiude a un ragazzo che cresce e dovrà affacciarsi sul mondo del lavoro negli States che si scoprono opulenti e modello universale, eppure è difficile definire una identità, e resta sullo sfondo una oscura minaccia, il fantasma sovietico, lo stallo atomico. C’è la generazione ‘sulla strada’, Ginsberg e Kerouac e tutti gli altri, beatnik, viaggi trasgressioni e letteratura nata dal reinventarsi una vita quotidiana lontana dal consumismo e fuori dalle regole, amore per un America vista comunque come spazio di libertà.
Anni cinquanta, campus universitari in fermento dieci e più anni di prima di quanto siamo abituati a ricordare, ricerca a tratti spontanea e a tratti forzata di comportamenti alternativi, droga, allargare l’area della propria coscienza e buttarsi via come modo per conoscersi, viaggio in automobile dal campus di Cornell, Ithaca, N.Y., a Miami, e da Miami in nave a Cuba, colta nel momento di passaggio tra due stereotipi, isola felice della malavita e isola felice di una nuova utopia.
Pynchon è studente universitario, cavallerescamente riconoscerà che tra i suoi compagni, nel giro delle riviste letterarie dell’università, c’è un tipo strano, Richard Fariña, origini irlandesi e cubane, uno scrittore nato, uno scrittore che forse è, o avrebbe potuto essere, più grande di lui. E che comunque ha capito prima, e che a differenza di Pynchon, simile in parte solo al giovane Pynchon di V., a differenza del Pynchon maturo, rinuncia per principio e per partito preso e per impossibilità a dominare la sua opera. Ne è personaggio e vittima, l’opera tarderà quasi dieci anni per venire alla luce, e sarà l’unica e l’ultima, perché l’autore, come il personaggio della sua opera, ha la morte nel cuore, e morirà il 30 aprile 1966, due giorni dopo l’uscita del romanzo, in un assurdo incidente sbalzato dal sellino posteriore di una moto.
Al di là dell’ingannevole linearità del romanzo di formazione, come il miglior Pynchon, testo a tratti incomprensibile per la stratificazione di livelli di lettura, e per l’avvilupparsi della trama in anelli senza fine. Romanzo debordante ma allo stesso tempo sorprendentemente equilibrato. Pieno di divagazioni che si percepiscono necessarie, dedicate ad accennare ad altri romanzi che chissà avrebbero potuto venire alla luce, ad altre eventuali trame, dedicate a storie possibilmente vere vissute dall’autore prima che dal protagonista, storie trasfigurate dall’affabulazione, dal racconto orale reiterato all’infinito tra una birra e l’altra, in locali affollati e rumorosi – eppure immaginiamo gli amici a sfottere e comunque ad ascoltare ancora una volta cercando variazioni sul tema il racconto di questo geniale narratore spontaneo, capace di costruire attorno alla spontaneità un proprio inconfondibile stile. Oppure, racconti usati in un tête a tête, sempre di fronte a qualcosa da bere o a letto, per sedurre una amica, rincorrere un improbabile amore. E per parlare veramente di sé, perché per persone così tra quello che si è e quello che si scrive è impossibile segnare il confine, e si può essere amati solo da chi ha saputo amare la nostra scrittura.
Ci sarebbe forse ancora da accennare a qualcosa, come ha speso la sua vita Fariña in quei dieci anni. Ha seriamente lavorato a New York nell’advertising, J. Walter Thompson, e poi è stato anche rilevante personaggio della scena rock, insieme a Mimi Baez, sua moglie e sorella di Joan. Ma già ricordare questi fatti allontana da lui, un artista elusivo, sfuggente – la sua biografia è la sua opera, opera d’arte e gioco, mettersi in gioco.

Be first to comment