Babylon, di Viktor Pelevin, gioca con gli schemi e le gestalt consolidate divertendosi a rimescolare le carte. L’impero del male sovietico si specchia nel binocolo rovesciato dei guru del marketing americano. A distinguere il capitalismo levigato e accelerato degli yuppies americani anni ’80 dalle vetrine impolverate e fuori moda della generazione Pepsi (il titolo originale del romanzo è proprio Generazione P) sovietica è l’inversione di un processo storico. Il post-socialismo non procede per disgregazioni successive delle proprie strutture sociali ma, al contrario, si disintegra accumulando. L’accumulazione selvaggia di merci innesca una spirale dissolutiva, in cui valore d’uso e di scambio si accoppiano dando vita a quello che appare come l’unico fattore di identificazione: il brand. Il marchio non è però un segno di prestigio sociale, uno status symbol che occidentalizza la società post-sovietica. Il brand è piuttosto una scorciatoia, una primitiva proiezione del desiderio che può permettere un accumulo vertiginoso di dollari in brevissimo tempo. Viene in mente il branding, rito estremo dei neo-primitivi occidentali, che rivendicano una forma di appartenenza anomala facendosi marchiare a fuoco.
Forse la parentela letteraria più evidente, oltre a quella di Bouvard e Pecuchet, è l’American Psyco di Bret Easton Ellis. Solo che in Pelevin la ricerca dell’orrore ad ogni costo lascia il posto alla rete delle immagini e degli script pubblicitari. E allora sotto Ellis rispunta Flaubert: il linguaggio è un palcoscenico cadente, un intreccio di saperi impuri e ridicoli. Le idee sono sempre di seconda mano e nascono ammuffite, intrappolate nelle grottesche sovrastrutture sovietiche. L’identità è un’illusione ottica, un effetto pubblicitario che crea soggetti immateriali. La verità esce (letteralmente) dal sacro volto di Che Guevara stampato sulle magliette dei Rage against the machine. Tutto sempre in ritardo, sovrappeso, fuori moda; al di là delle categorie tutte occidentali del kitsch e del trash. Gli oggetti sono contraffatti e ridotti alla loro immagine: Rolex fasulli che devono durare il tempo di un colloquio, società fittizie per lo smercio di prodotti rubati, edifici che provengono da epoche indefinite. Frammenti di saperi staccati dal loro contesto che entrano nella centrifuga della pubblicità. Così la legge che governa la storia sembra essere quella del caos, in un groviglio di eventi storici che ritornano e si confondono: antiche mitologie che anticipano le strutture economiche del tardo capitalismo, divinità orientali che hanno la password per irrompere nella nostra realtà, mafiosi alla ricerca dell’identità spirituale russa. Allo stesso modo il protagonista, Vavilen Tatarskij, per scrollarsi di dosso un nome che è l’acronimo di Lenin, rivendica un’improbabile appartenenza babilonese e rincorre un passato che assomiglia a una cipolla: una serie di strati sovrapposti che non hanno alcun core al centro. Solo un buco nero che inghiotte tutto quello che gli sta attorno. Come accade all’individuo, ormai ridotto alla sua identità virtuale di homo zapiens, consumatore ipnotizzato dallo schermo televisivo che vive in simbiosi con il telecomando.
L’unica via di salvezza, sembra dirci Pelevin, si trova nel linguaggio. All’interno di una strana creatività di nicchia, in cui la strategia di sopravvivenza elementare e cinica del giovane copywriter si complica, agganciandosi ad una sotterranea coerenza con i propri valori. Elaborare concept pubblicitari per posizionare prodotti nel mercato sgangherato della nuova Russia è anche un modo – che si potrebbe definire “etico” – di riposizionare l’identità culturale del paese in rapporto allo strapotere economico occidentale. Sotto le Mercedes sfavillanti dei mafiosi e le sigarette d’importazione si ritrovano gli slogan in cirillico e le gloriose sigarette Java. Tatarskij cerca di viaggiare a ritroso, dentro se stesso e la propria formazione, inseguendo un sogno di eternità confusa e un po’ malinconica. In fondo, tutte le direzioni si equivalgono se il viaggio non è accompagnato da una mutazione interiore. Come emerge anche dai racconti di La vita degli insetti, Pelevin sembra nutrire poca fiducia nello scorrere del tempo fisico, e ogni evoluzione per lui avviene al contrario, invertendo le gerarchie consolidate e trascinandosi dietro una scia di detriti e schegge taglienti sotto forma di ricordi e allucinazioni. Al punto che le linee evolutive assomigliano sempre di più alle catene associative inconsce che uno slogan pubblicitario deve saper suggerire per dimostrarsi realmente efficace. Il marketing si rivela così l’unica vera forma di ingegneria genetica in grado di indurre mutamenti reali nel rapporto profondo tra l’individuo e il suo ambiente.
Pelevin è stato paragonato a Nabokov, anche se la sua capacità di connettere immagini e concetti di diversa provenienza – all’incrocio tra buddismo e scienze cognitive – lo avvicina ai migliori scrittori cyberpunk americani. La rete delle conoscenze che si dispiega nella trama di Babylon assomiglia a quella proliferazione incontrollata di piccoli tic linguistici che si trova nei racconti di Bruce Sterling: non una neo-lingua alla Orwell, depurata e perfetta, ma un intreccio di codici eterogenei e ibridi sparati su uno schermo ronzante. Scantinati di vecchi palazzi, muri carichi di graffiti, spezzoni di cultura pop e funghi allucinogeni. Tutto il romanzo è percorso da visioni sciamaniche e riflessioni sui target group, mentre Mosca brulica di ambigui pubblicitari e loschi trafficanti. La palude linguistica in cui si immerge Tatarskij è un accumulo di percezioni confuse e sullo sfondo si intravede la sagoma minacciosa della torre di Babele, forse risalente all’era brezneviana. Eppure dai rumori di fondo di questo impero arrugginito, in cui tutto brucia nel “fuoco del consumo”, emergono strane formule – a metà tra il mantra e lo slogan – che permettono al protagonista di accedere a nuovi piani di realtà. Alla fine, la scalata sociale e il viaggio iniziatico si confondono in un’imprevedibile via sovietica al marketing psichedelico.
Generation “P”, 1999, ed. it. Babylon, trad. di Katia Renna e Tatiana Olear, Milano, Mondadori, 2000