Jean-Claude Izzo

“Giallo”, o “nero” mediterrraneo come modo di parlare d’altro. Ci riempiono pagine e scaffali di librerie e adesso anche siti web con i personaggini di Cammilleri e Vázquez Montalbán. Ma è ovvio che in giro c’è di meglio. La pigrizia e la neghittosità di critici e di lettori non ci obbligano ad adeguarci. Montalbano è un gioco di mera imitazione. Maigret e il tenente Sheridan lasciano tracce; il mercato si contenta di poco, ci si può campare sopra. A Barcellona, meglio del narcisista intellettuale politicamente corretto Montalbán ha lavorato González Ledesma, il suo Méndez dà la paga a Carvalho ad ogni pagina.

E poi c’è questo marsigliese, che con totale consapevolezza usa il romanzo nero per parlare d’altro, ed ha il coraggio di far morire il suo Fabio Montale quando questo, arrivando ad uccidere, lo delude. (E all’inizio del Duemila anche Izzo muore, di cancro).

Izzo può cadere nel romanticume, Izzo è l’autodidatta che cerca la pagina difficile e sfiora il baratro del ridicolo, Izzo è il giornalista che si trasforma in scrittore e che si lascia trascinare dal testo, da tutto quello che fino ai cinquant’anni non ha potuto raccontare, ed ora magari esagera, si lascia prendere la mano.

Ma c’è vera rabbia e vera dolcezza nelle sue pagine, vero coraggio. Mette tutto in gioco nelle sue pagine. Cita senza ritegno rovesciandoci addosso le sue letture anche raffazzonate, sonore, da Camus a Saint John Perse, da Rimbaud al suo mito americano Jim Harrison. E le sue colonne sonore, da un certo rap marsigliese a Paolo Conte, dal jazz di Theolonius Monk e di Coltrane a quello di Petrucciani, da Rubén Blades a Leo Ferrè.

Poi c’è la ricostruzione di una Marsiglia descritta senza ritegno e allo stesso tempo riscattata dal sogno: esagerazione emozionale, ricostruzione mitica, città madre, ventre oscuro ma forse proprio per questo più protettivo.

E c’è soprattutto la sua cifra più significativa, quel modo personale di parlare duramente di politica e di fare critica radicale al sistema attraverso la poesia. Il romanzo come elaborazione del lutto, e al tempo stesso come testimonianza. Perché la narrazione non è mai pura, ma ci vuole coraggio, ci vuole condizione, e si devono sentire con forza certe idee per piegare così il racconto senza che appaia forzato il discorso “a tesi”.

A onore di Izzo va proprio questo, le sue pagine ci possono apparire anche ingenue, ma mai forzate. Lui scrive perché ne ha bisogno e perché ha qualcosa da dire. Non si rivolge mai a un lettore astratto, a qualcuno di inferiore. All’opposto di Montalbán: lui, che ci parli di gastronomia, degli azulgrana o della lingua catalana o di qualsiasi altra sciocchezza non scende mai dal pulpito dell’intellettuale organico. Izzo invece parla sempre a qualcuno, da pari a pari. Le prime pagine dei romanzi neri sono scritte come lettera al figlio militare. Le pagine di Le soleil des mourants ci prendono per mano e ci impongono il loro tema, la vita quotidiana dei SDF, sans domicile fixe, senza dimora. Barboni e immigrati non solo vivono un loro mondo, ma hanno una loro visione del nostro mondo. Izzo ci sbatte in faccia questo suo punto di vista. Eppure il suo sguardo è così dolce nelle sue foto che si trovano sulla Rete.

Be first to comment