La Cripta dei cappuccini

Nel 1938, anno di stampa della Cripta dei cappuccini, Joseph Roth si trova esule a Parigi dalla Germania nazista. Vi arriva cinque anni prima – dopo la conclusione della lunga, quasi decennale, attività di reporter per il Frankfurter Zeitung e la pubblicazione berlinese, nel 1932, della Marcia di Radetzky, romanzo che segnerà la sua consacrazione ai vertici della letteratura mitteleuropea – e vi rimane fino al 1939, anno della sua morte. Durante l’esilio parigino – una sorta di postfazione a quel senso di ineluttabilità, si direbbe quasi di nemesi storica, gravante sull’intera vicissitudine umana dello scrittore ucraino – Roth scrive il lucido e crudele epicedio della Cripta dei cappuccini. La composizione di questa ”orazione funebre” – quasi un’invocazione testamentaria della sua vicenda artistica – rappresenta un capitolo essenziale dell’articolata parabola letteraria dedicata alla finis Austriae – che ha inizio con il romanzo giovanile Hotel Savoy (1924), prosegue nella Marcia di Radetzky e si conclude con La milleduesima notte (1938) – ed è il preludio all’opera che segnerà il definitivo epitaffio della sua arte – la terribile allegoria mistica della Leggenda del santo bevitore (1939), profetico e divinatorio racconto sul proprio penoso stato di proscrizione esistenziale indotto dall’alcolismo.
La forma del romanzo rispecchia i tratti caratteristici della letteratura mitteleuropea – la solitudine dell’uomo al cospetto della drammatica dimensione del reale, l’intensa carica utopica che da essa ne consegue e la tragica ironia con cui questa viene espressa – e mentre trova la sua premessa nel simbolismo “aristocratico” di Hugo von Hofmannsthal e nello stile narrativo – inteso a essere strumento di una conturbante analisi psicologica – di Arthur Schnitzler, precorre la prosa icastica e aneddotica di Elias Canetti.
Tema centrale della Cripta dei Cappuccini – metafora letteraria di una tragedia antropologica – è l’annullamento dell’identità culturale austriaca, il crollo della società nella quale essa si produce e la proiettiva, quasi speculare, crisi di individualità esistenziale operatasi a seguito del rovinoso epilogo e della drammatica distruzione dell’Impero Austro-ungarico. Questo era sorto dopo l’annessione dell’Ungheria all’Impero austriaco nel 1867 e si era configurato come confederazione di stati unificata sotto il regno di Francesco Giuseppe. L’articolato sistema di intese europee – come la Triplice Alleanza con Germania e Italia – aveva assicurato all’Impero un lungo periodo di pace, bruscamente spezzato nel 1914 con l’assassinio dell’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando. La conseguente Prima guerra mondiale ne aveva decretato il compimento. A causa della pesante sconfitta conseguita, l’Impero austro-ungarico si era frammentato in diversi territori nazionali: in Austria si era instaurato uno Stato corporativo ed autoritario sotto un cancellierato federale, le cui politiche filonaziste avevano portato il 10 aprile del 1938, a seguito dell’avvenuta occupazione tedesca, alla formalizzazione referendaria dell’annessione al Terzo Reich.
Le tre fasi dell’apologia storica dell’Impero – ovvero la nascita nel nome di una pax augustea, il trapasso della guerra, il declino rovinoso e l’annientamento davanti alla follia nazista – corrispondono ad altrettanti stadi del romanzo: Francesco Ferdinando, giovane erede dell’aristocratica casata dei Trotta, – il cui titolo nobiliare gli era stato conferito dopo le gesta eroiche del luogotenente Joseph Trotta, zio del protagonista, che durante la battaglia di Solferino (1859) aveva salvato la vita all’imperatore Francesco Giuseppe – conduce un’esistenza disagiata tra le facezie e gli ozi del rarefatto e dorato universo aristocratico della Vienna absburgica. L’occasione per rifuggire il proprio malessere – che risiede nella lucida consapevolezza del declino oramai irreversibile a cui è destinato il mondo al quale appartiene – gliela offre l’invito di Manes Reisiger (un vetturino galiziano conosciuto attraverso il cugino Joseph Branco) a lasciare Vienna per recarsi suo ospite a Zlotogrod, in Galizia. Partito dunque da Vienna – la cui involuzione culturale e storica della sua decadente cosmogonia si definisce ancor più compiutamente, contrapposta all’energica vitalità e all’animoso fervore dei personaggi che popolano la campagna slovena – si reca a Zlotogrod e vi rimane fino allo scoppio della guerra. Arruolatosi come “alfiere della riserva”e ottenuta la recluta nel reggimento degli ormai divenuti compagni di vita, Reisiger e Branco – “volevo morire insieme a loro, e non con dei ballerini di valzer” sentenzia il giovane Trotta, riferendosi ai suoi vecchi commilitoni – parte alla volta del fronte orientale dove viene catturato, insieme ai suoi due amici, dall’esercito russo. Come recluso in un campo di detenzione in Siberia e ospite del mercante di pellicce Jan Baranovitsc – un polacco a cui vengono affidate le cure dei tre soldati – l’alfiere Trotta passa gli anni di prigionia. Attorno all’eremo della casa di Jan Baranovitsc – la cui figura si definisce nel perimetro di una profonda integrità morale che illumina il fosco contesto di barbarie della guerra – la società europea, sprofondata nell’abisso della distruzione e dell’annientamento, rigenera e trasforma la sua identità civile. Tornato a Vienna la vigilia di Natale del 1918, trova ad accoglierlo un’aristocrazia che, privata dell’identità sociale che le era propria all’interno dell’assetto imperiale – “ora io cosa sono? Sono anch’io una capitalista?” chiede smarrita la madre del protagonista a Xaver, “uno dei pochi vetturini rimasti” – tenta di ricomporsi un ruolo nel contesto del nuovo ordinamento repubblicano. Lo sgomento antropologico di Francesco Trotta si concretizza davanti alle sedie color “giallo limone” e alle tende arancioni dell’atelier di “arti applicate” della moglie Elisabeth (la donna con cui si era sposato prima di partire per la guerra), primitivi codici ed idiomi dell’avanguardia culturale. L’insuccesso della ditta del suocero, alla quale si è associato, ratifica il fallimento del suo tentativo di costruirsi una solida esistenza borghese. Elisabeth, influenzata dalla professoressa Jolanth Szatmary – attraverso la cui descrizione caricaturale Roth ridicolizza l’inedita realtà post-bellica – lo abbandona per inseguire il sogno di fare l’attrice, nuova chimera della modernità.
Per scongiurare una catastrofe finanziaria apre una pensione nella casa di famiglia, una sorta di metaforico nosocomio spirituale dove trovano alloggio i suoi vecchi amici, anch’essi sconfitti dalle alchimie dialettiche della Storia e divenuti ormai dei “senzatetto”. La successiva morte della madre – ultimo residuato di una generazione passata – e l’avvento del nazionalsocialismo trasformano definitivamente la sua rassegnazione afasica in vera e propria alienazione esistenziale. Impotente di fronte al proprio tracollo, Francesco Trotta visita la Cripta dei cappuccini – il luogo dove sono sepolti gli imperatori austriaci, il simbolo della scomparsa monarchia – e confessa la sua sconfitta.

di Francesco Ceraolo

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