Patricia Highsmith

di Francesco Varanini

Ricordo un amico di mio babbo sulla spiaggia delle Ghiaie, a Portoferraio, restava quando tutti se ne andavano a mangiare, fumando sigarette al mentolo, solo sotto la canicola, diceva ora mi metto a leggere Highsmith, questa scrittrice di gialli famosissima a Parigi, in tutto il mondo, e chissà perché ignorata in Italia. Saremo stati all’incirca alla fine degli anni settanta, e mi è rimasto in mente quel nome, quel momento, anche quando tutta Highsmith, o quasi, è stata tradotta in italiano; senza mai un vero successo, però.

Non a caso i suoi libri sono così di frequente compresi in collezioni di cartonati economici, o li ritroviamo sui banchi dei Remainders come l’indisponente Catastrofi più o meno naturali (Bompiani, 1989; in originale Tales of Natural and Innatural Catastrophes, London, Bloomsbury, 1987).

Indisponente, del resto, è quasi qualsiasi pagina di Highsmith. Perfetta nel tessuto narrativo, ci mette sotto il naso grovigli di malattia mentale, comportamenti amorali presentati come inevitabile esperienza quotidiana, ed è evidentemente la risposta a un bisogno profondo della scrittrice, liberarsi di tutto questo scrivendolo, però la scrittura resta pulita, maniacalmente ordinata, priva di quei sussulti inciampi lacerazioni di cui sono piene le pagine di Dostoevskij, eppure le trasgressioni narrate da Highsmith sono ben più gravi, omicidi perpetrati con cognizione di causa, con motivazioni etiche, una perversa etica individuale che ci appare pericolosamente convincente, perché corrisponde a nostre riflessioni segrete, a inconfessabili desideri, rispetto ai quali immaginiamo che Highsmith eviti di soccombere elaborando il riprovevole sogno, appunto, la attraverso la scrittura.

Si inizia ogni romanzo con la segreta speranza che stavolta, almeno stavolta, il protagonista non sprofondi nella paranoia, non ceda al fascino sottile del delitto, non si avviti in una spirale di autodistruzione. Ogni volta la razionalità del tessuto narrativo ci illude, e ogni volta la narrazione vira inevitabilmente, in virtù di una ferrea logica, in virtù di una inevitabile degenerazione, vira la narrazione verso il delirio, un delirio tanto più pericoloso quanto è ammantato di normalità, di quotidiana ovvietà.

Ripley è il caso estremo. Ha tutte le accattivanti, tranquillizzanti caratteristiche dello stereotipo ben costruito. Ripley ci appare amichevole perché ci è già noto. Come Maigret, come Sherlock Holmes. Ma sta dalla parte del crimine. Un crimine razionalmente giustificato, necessario, inevitabile. Un crimine impunito.

Leggendo romanzi dove sempre trionfa la legge è difficile esorcizzare i fantasmi della trasgressione. Ma dove trionfa l’ingegno illegale, assassino, dove il trasgressore riesce a mantenere sotto controllo il suo istinto e gode della piena rispettabilità borghese, l’esorcismo funziona appieno. Un piacere troppo sottile per il lettori di gialli italiano?

Ancora a proposito di Patricia Highsmith
di Francesco Varanini

Mary Patricia Plangman nasce il 19 gennaio 1921 a Fort Worth, Texas. I genitori divorziano quattro mesi dopo la sua nascita. Quando ha tre anni, la madre sposa Stanley Highsmith. Solo a dieci anni Patricia saprà che Stanley non è suo padre, e solo due anni dopo incontrerà il suo vero padre.
Nel 1949 è per la prima volta in Europa: Inghilterra, Italia, Francia, e Svizzera, dove finirà per stabilirsi, e dove morirà 4 febbraio 1995.
Esordisce nel 1950 con Strangers on a Train. Il film di Alfred Hitchcock (Delitto per delitto) è dell’anno successivo. Tutta la sua opera resterà legata a un particolare senso del thriller e della suspence, fatto salvo The Price of Salt (1952), storia di un amore lesbico. E’ forse il primo romanzo americano dichiaratamente omosessuale con un finale positivo, ma è firmato Claire Morgan.
The Talented Mr Ripley, il primo romanzo che ha per protagonista Tom, è del 1956. In un arco di oltre trent’anni ne seguiranno altri quattro (e in quattro film diversi Ripley apparirà sullo schermo).
Perfetti nel tessuto narrativo, i romanzi di Highsmith ci costringono a guadare grovigli di malattia mentale, comportamenti amorali presentati come inevitabile esperienza quotidiana, omicidi perpetrati con cognizione di causa, con motivazioni profonde, che ci appaiono pericolosamente convincenti, perché corrispondono a nostri segreti pensieri, a inconfessati desideri.
Ripley è un criminale, ma non consideriamolo troppo diverso da noi.
Anche noi cerchiamo spesso ciò che è di per sé sfuggente, cerchiamo una copertura razionale e generale all’azione quotidiana mossa da un interesse contingente. Anche noi proviamo l’infinita gioia che suscita la volontà di superamento delle meschinità del quotidiano, con le sue ingiustizie e le sue crudeltà. Anche noi cerchiamo quello scatto capace di allontanarci dal piccolo risultato che si ottiene dal lavoro di ogni giorno: è questa ansia di superamento, in fondo, il motore dell’imprenditorialità.
Come dare spazio alla carica vitale, come sognare in grande e tentare i confini dell’infinito, coniugando tutto questo con l’impegno e il senso del dovere?
La libertà viene prima e dopo le teorizzazioni. Anche di fronte alle teorizzazioni che tengono in conto il maggior numero di variabili; anche di fronte alla teorizzazioni che eleggono a linea guida la fiducia limitata nella ragione e lo scetticismo – sempre resta un insondabile spazio di libertà.
La libertà non è qualcosa in sé, ma qualcosa che viene manifestandosi. Si esprime ‘contro’ il definito e il descritto, come scelta e come alternativa, come protesta e come proposta. La libertà è vitalità creativa.
Ma quale è appunto il limite sul quale dovremmo fermarci? Kant si aggira attorno a questi concetti con prudenza, ma anche con quella vaghezza e quella ambiguità che vincola la conoscenza a una sorta di processo misterioso. Patricia Highsmith prosegue su questa strada: ci mostra un personaggio tutto immerso in questo mistero.
Invece di proporci un discorso morale, ci mostra i limiti empirici della morale: Ripley viola ogni apparente legge. Eppure – paradossalmente, misteriosamente – ci appare nonostante tutto guidato da un sua moralità.
Highsmith, in fondo, ci parla sempre di paradosso e di ambiguità. La sua attenzione si sofferma sui luoghi più foschi, anche lì dove il lettore stesso vorrebbero distogliere lo sguardo. Così negli negli acuti Tales of Natural and Unnatural Catastrophes, 1987: un esemplare avvicinamento letterario ai temi della complessità e del caos.

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