Guillermo Cabrera Infante

Nel 1993 l’arrivo nelle nostre librerie – dopo lunga attesa – dell’Habana para un infante difunto (L’Avana per un Infante defunto, 1979, trad. di Tilde Arcelli Riva, Milano, Garzanti), aveva riacceso da noi l’attenzione per Guillermo Cabrera Infante. Sono state tradotte successivamente altre opere, ma non ve le cito neanche. Perché ho la radicata convinzione che Cabrera Infante à in realtà l’autore di due sole opere: Tres tristes tigres, e appunto l’Habana para un infante difunto. (Per leggere poi non c’è tanto tempo: Cabrera dovete leggerlo, e fidatevi, scegliete uno di questi due libri).

Acrobatica autobiografia onirica L’Avana per un Infante defunto decolla come memoria infantile per poi immergersi alla fine in una chiusa serio-comica che ci porta letteralmente (leggere per credere) negli abissi del sesso. E nel mezzo, come in ogni opera di Cabrera, giochi di parole, delirio verbale, digressioni insistite ma sempre riscattate dall’autoironia. Romanzo di formazione, o parodia del romanzo di formazione, mette in scena i venticinque anni vissuti da Cabrera all’Avana: da quando a dodici anni la famiglia si trasferisce nella capitale a quando, poco più che trentenne, deluso dal castrismo, abbandona l’isola.

Di questa delusione e di questo abbandono Cabrera si guarda bene dal parlare esplicitamente: ma nella Cuba ricordata nel romanzo, nella Cuba amata non c’è posto per il grigiore sovietico. L’Avana di Batista e l’Avana di Castro sono riviste da Londra, dove l’autore vive dal ’65, come un mondo e un’infanzia perduti… e mentre scrivo mi rendo conto di usare parole troppo fredde, che non sanno rendere ragione della vitalità, del gusto per la trasgressione e per l’eccesso, della profondità nascosta sotto forma di gioco, e cioè della luminosa ricchezza della scrittura di Cabrera.

Difficile parlare di Cabrera senza appiattirlo: se ne accorgerà il lettore se, seguendo il nostro consiglio, affronterà la prefazione di Carlo Bo solo dopo aver letto non diciamo tutto, ma almeno qualche pagina del romanzo. Il ritmo trascinante farà apparire misere e superflue le pagine introduttive, e il lettore farà presto a capire che, a differenza di quello che scrive il critico, Cabrera ha ben poco a che fare con Faulkner, Gide, e tantomeno con Borges. Certo, questi sono i libri letti dal Cabrera-personaggio; ma il suo stile, il suo approccio non hanno niente a che vedere: tutti cubani, tutti legati a un cultura meticcia dove le influenze europee e statunitensi sono rimasticate da lontano, con assoluta originalità: e allora, se proprio si deve citare un precursore, un maestro, il nome non può essere che uno, cubano, quello del grande José Lezama Lima di Paradiso (ne esistono due diverse versioni italiane, nella BUR e presso Einaudi).

Se poi si deve citare un coetaneo, il nome sarà quello di Márquez. Beninteso, non per la vicinanza, ma per l’assoluta distanza. Gabo (il noto diminutivo che sta per Gabriel) e Ca’n (dalle iniziali dei cognomi, lo pseudonimo usato in gioventù dal Cabrera giornalista) sono le due facce del romanzo latinamericano contemporaneo: stessa generazione (nati a un anno di distanza), stessa origine caribica, stessa formazione fortemente influenzata dal cinema, per entrambi principale se non unico contatto con la cultura straniera. Ma Márquez ci parla di un mondo incontaminato, un mondo che ha nostalgia delle proprie origini. Per Cabrera invece nessuna mitica Macondo, ma l’Avana, grande città corrotta eppure vitalissima; e al posto delle strade sterrate e della natura rigogliosa, condizionatori d’aria, alcol e automobili.

L’oggetto della narrazione di Cabrera è una realtà cruda che di vie di fuga non ne offre: per lui la retorica del meraviglioso e del fantastico è un cancro da estirpare. Mentre in Márquez c’è un’autore che racconta e domina la scena, in Cabrera sempre e solo dialogo, conversazione tra amici, cicaleccio di comari: la quotidianità insomma, messa in pagina senza mediazioni. E se Márquez si riempie la bocca con aggettivazioni lussureggianti, Cabrera, all’opposto, scrive, come dice lui stesso, “in cubano” e la sua scrittura “non è altro che un tentativo di prendere al volo la voce umana”.

Una lingua dialettale, dunque, che unita ai reiterati giochi di parole rende arduo il lavoro del traduttore: e questo ci spinge ad essere indulgenti con Tilde Arcelli Riva.

Sono pagine musicali, da cui lasciarsi trasportare. Tanto non si può prendere Cabrera alla lettera, perché la sua lettera sfugge, scritta com’è per giocare con il lettore come il gatto con il topo.

Sono peculiarità di cui l’autore è assolutamente consapevole. Aveva tradotto di sua mano in inglese e in francese quello che resta il suo capolavoro, Tres tristes tigres. Quando, scorrendo la traduzione, l’editore francese preoccupato commenta che “questo non è francese”, Ca’n ebbe buon gioco a rispondere, senza scomporsi, che c’era poco da meravigliarsi, perchénemmeno l’originale era scritto in spagnolo. (Da noi si trova in edizioni Saggiatore).

Tre tristi tigri: aveva vinto il Premio Biblioteca Breve dell’Editore spagnolo Seix Barral nel ’64 (il premio che ai tempi consacrava gli autori dell’emergente narrativa latinoamericana). Il libro era uscito in libreria l’anno successivo. Al centro sempre l’Avana, postribolo per gringos. Tropico a portata di mano per turisti ignoranti, ma intanto sulla Sierra avanza la Rivoluzione, speranza non ancora delusa.

Aprite questo libro eccessivo e resistete alla tentazione di considerarlo superato. Parla invece della Cuba del futuro, della Cuba che sta tornando ad essere come prima più di prima postribiolo e casa da gioco per gringos, stranieri ricchi di dollari, Las Vegas arricchita da un incomparabile panorama tropicale.

Aprite il libro anche a caso ,e si apra il sipario su questa notte cubana, tropicana, habanera, di cinema all’aperto, di fari di auto nella notte, di bar, di boleros, prima dell’amanecer, rosso, rosa nella mia memoria, Honey, this his the Tropic!, il Tropico, questo tropico (l’etimo: tropo, figura, rivolgimento, rivoluzione), tropico di parole è anche impiastricciare i tasti della macchina da scrivere, a caso, onda su onda, perché l’hai già fatto tu Ca’n, .wdyx gtsdw –’r hiayseos! r”ayiu drfty/tp?

Cuba Venegas, è una diva da quattro soldi, ma una vera diva, ave fénix, araba fenice delle notti cubane, canta boleros con la sua voce profonda, nella penombra fumosa. Entra, entra, mi dice guardandomi nello specchio del camerino. Si sta truccando, sotto la vestaglia si indovinano gli abiti di scena. È più carina che mai con le sue labbra tumide piene di rossetto umido e l’ombretto azzurro sopra gli occhi che li fa sembrare più grandi e più neri e più brillanti, e la pettinatura un po’ alla Veronica Lake mulatta, e la gamba accavallata che esce dalla vestaglia aperta sopra il ginocchio, gamba tesa e soda e morbida, quasi commestibile.

Habana vieja è anche pisciare come Hemingway nel ghiaccio, nei cessi, pip’-room, del cabaret La Floridita, e tornare al tavolo a discutere se è meglio irse a la sierra, al monte, andare sui monti e farsi guerrillero, o aspettare sempre, aspettare ancora, perché l’essenza della vita, del suo fascino un po’ sottile e un po’ perverso sta nel rinviare, todo es posponer, unirsi a Fidel, o aspettare ancora, vivere fino alla fine qui all’Avana questa notte cubana, parlicchiando di cinema e di letteratura, sì, anche per ammazzare il tempo, vivere la nostra vita, recitare la nostra parte anche in questa notte dissoluta, sì, mi dileguo nella notte, ma perché voler sempre teorizzare, di nuovo all’aperto e dissolvenza su questa nostra notte, notte che por cierto si dissolverà in un’alba rivoluzionaria, nascerà finalmente un nuovo giorno, il sol dell’avvenire sorgerà, presto amanecerá aqu’ en el Trópico una Cuba diversa, un nuovo modo di essere uomini, il popolo cubano deciderà il suo destino, Cuba sarà…

Su come poi sia andata con la Rivoluzione cubana ognuno avrà la sua idea. Ed è giusto che se la tenga. Ora tutto questo è, vi dicevo di grande attualità.

Quale Cuba è stata la Cuba della rivoluzione, agli albori, ha provato allora a raccontarcelo Ca’n, parlando innanzitutto di sé, come è giusto, perché vale più uno sguardo di un narratore che cento pagine di un saggista correttamente guidato dall’ideologia. E Ca’n probabilmente senza volerlo ci aiuta oggi a interrogarci sulla Cuba di domani.

Lui per fortuna parla poco, interviene di rado sui giornali. Dal suo isolamento londinese, protetto dalle lenti spesse dei suoi occhiali, scruta questo confuso passaggio storico e non ci interessa sapere cosa pensa. Perché ha dato comunque molto da pensare a noi, attraverso questi due libri esemplari.

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