Sono passati ormai sei anni da quando Adelphi ha portato in libreria la nuova edizione di Fratelli d’Italia totalmente riscritta e raddoppiata nella mole. Operazione vana, perché il libro da salvare non è il romanzone di 1371 pagine che fa bella mostra negli scaffali Adelphi.
Il libro da salvare è quello che Arbasino aveva scritto trent’anni prima. Quella del 63 fu, se così si può dire, una buona annata. A Barcellona Vargas Llosa vince con La ciudad y los perros il premio Biblioteca Breve, aprendo la grande stagione dei latinoamericani; in Germania Böll dà alle stampe le Opinioni di un clown; negli Stati Uniti esordisce Pynchon con V.. E per quanto il nostro paese (anche lasciando tra parentesi il convegno palermitano che segna l’esordio del Gruppo che proprio da quell’anno prende il nome) ricordiamo La cognizione del dolore di Gadda, Capriccio italiano di Sanguineti, Libera nos a malo di Meneghello, Le armi l’amore di Tadini. E appunto Fratelli d’Italia.
È anche l’anno della Giornata di uno scrutatore di Calvino. Un’opera d’impegno politico che solo apparentemente guarda al presente, perché lo legge attraverso l’ideologia, nella luce nostalgica del passato resistenziale: «Così, nella memoria, egli prese a contrapporre allo scenario che aveva davanti agli occhi il clima che c’era stato in Italia dopo la liberazione …. pensava che solo quella democrazia appena nata poteva meritare il nome di democrazia… quell’epoca era ormai finita, e piano piano a invadere il campo era tornata l’ombra grigia dello Stato burocratico…».
Rileggere queste pagine stantie ci obbliga a dire: che aria nuova in Fratelli d’Italia! Se La giornata di uno scrutatore chiude un’epoca, il gran romanzo di Arbasino ne apre un’altra: pagine radicate nel momento storico, segno dei tempi, ben più delle pensose riflessioni di Calvino.
Fratelli d’Italia: Nascita di una nazione, Grande feticismo del Boom, Spirale keynesiana senza ritorno: dar lavoro, promuovere l’economia e il benessere; politici economisti industriali e statistici che si affannano; consumi di massa e di élite, shopping a Londra. Ma tutto resta sullo sfondo, perché al centro del discorso c’è il cicaleccio intellettuale, la logorrea citazionistica, l’enumerazione caotica di nuovi miti, l’indigestione di letture. E questo è il primo gran pregio: Arbasino, consapevolmente o no, si prende in giro, scherza sul suo mondo, sul suo sforzo per non perdere l’ultimo treno disponibile per l’intellettuale italiano. Scherza, ma proprio a partire da questa messa in scena grottesca di consumi culturali, da Palazzo Ducale a Spoleto, costruisce un discorso etico di una profondità che Calvino può solo sognarsi.
Non a caso nel bailamme di personaggi futili, che sono tutti proiezioni dell’Arbasino consumatore vorace, vediamo apparire la figura opposta, lo scrittore austero, che incarna senza retorica il bisogno dell’autore di dominare questi materiali sconnessi, la necessità di interpretarli guardandoli dal di fuori: giudicare il presente per trarne, perché no, una morale. “Bustini è una mia idea fissa”, “un letterato conservatore contemporaneo di un certo decoro e di una certa pretesa”, “austriacante”, abitante “nel Lombardo-Veneto”, formatosi “su fonti mitteleuropee di finissimo gusto asburgico, tanto sicuro di sé da non perdere tempo con Eliot o Valéry o Lorca. “Cioè un Nuovo Parini che storicisticamente aveva il dovere di esistere nel nostro paese”, “e invece, paradossalmente, non è mai esistito”. “Peggio per noi”, conclude Arbasino in Certi romanzi (uscito nel ’64, sorta di journal che ripercorre i motivi teorici che stanno dietro Fratelli d’Italia).
Questo per dire che, letto oggi nella sua versione originale, Fratelli d’Italia ci appare freschissimo e attualissimo. È l’opposto di un libro datato; anche per merito delle pagine scritte nel frattempo dal suo autore. Chi infatti ha conosciuto Arbasino attraverso i suoi lavori giornalistici si troverà pienamente a suo agio di fronte al romanzo – le stesse enumerazioni, indigestioni, coincidenze, ‘linee di tendenza’, arrabbiature, giudizi –. Trent’anni di interventi legati all’attualità, insomma, possono essere agevolmente letti come un’enorme chiosa a quel romanzo.
Ci appare quindi semplice intendere Fratelli d’Italia come opera che l’autore non ha mai cessato di scrivere. E dunque non meraviglia la nuova edizione. Ciò che, non lo neghiamo, desta apprensione è la ‘riscrittura’: il romanzo ora è scritto troppo bene. Peccato, perché ci pare ancora centratissimo quel rilievo che proprio in Fratelli d’Italia (prima versione) avevamo letto: «Qualunque libro andrebbe veramente scritto in un anno, non di più, anche se lo si è pensato per tutta la vita (anzi: tanto più). Naturalmente ogni volta che lo si ripassa diventerà un’altra cosa. Non esiste la Struttura Definitiva, ne varietur. Ci sono stesure probabili… Bisognerà staccarsene in tempo, prima che perda un certo charme del non finito…».
L’autore non sa staccarsi dalla sua opera e la riscrive peggiorandola – o comunque non aggiungendo, nonostante fiumi di parole, un virgola a ciò che l’opera aveva già detto. L’editore sentitamente ringrazia e si illude di pubblicare un libro nuovo. Il lettore si trova di fronte un libro barboso e lo butta.
Questa triste fine può essere evitata con un semplice trucco. Trucco sentitamente consigliamo ai lettori. Farsi strada nella chiacchiera infinita dell’autore saltando di qua e di là. Leggere ignorando la metà delle pagine. Riportando così il libro alla sua felice dimensione originale.