Qualche tempo fa, è passato nei cinema italiani un piccolo film a basso costo, Animal Factory, diretto da Steve Buscemi. Come capita di solito, se non possono contare sulle spinte dei grandi distributori, le pellicole restano in circolazione per breve tempo, e quel film lo hanno visto davvero in pochi. Peccato, perché rimane un bell’esempio di cinema degli anni settanta fuori tempo massimo, uno di quei prison movie girati con pochi fronzoli, tutti giocati sull’impatto emotivo di figure tagliate a colpi d’ascia: secondini sadici, direttori fanatici, amici pericolosi, cattivi maestri. Niente effetti speciali e molto sudore, come nella partita di football che chiude Quella sporca ultima meta di Friedkin. La redenzione morale, quando c’è, passa attraverso la prova del carcere, e l’universo chiuso della prigione diventa il palcoscenico su cui si scontrano valori elementari come l’amicizia, la lealtà e la sopravvivenza.
Per rimediare possiamo andarci a leggere il romanzo originale, appena pubblicato nella nuova collana “nera” del Giallo Mondadori. Animal Factory, del 1977, è stato scritto da Edward Bunker, uno che di prigioni ne sa qualcosa, visto che nel corso degli anni c’è entrato e uscito parecchie volte. È nato a Hollywood nel 1933 – il padre è un attrezzista, la madre una ballerina di fila – e a quindici anni finisce in riformatorio. Dopo una serie di arresti e di condanne ha trovato l’occasione per rifarsi una vita scrivendo romanzi tesi e taglienti, acclamati dalla critica e dal pubblico (Einaudi ha pubblicato Cane mangia cane). Lettore onnivoro e istintivo, Bunker è capace di citare Marcuse nel bel mezzo di una discussione tra ergastolani e di lasciarsi andare a considerazioni sociologiche nell’attesa di una rissa o di un accoltellamento. Quentin Tarantino lo inserisce senza esitazione tra i suoi scrittori di noir preferiti. Se non ci accontentiamo delle dichiarazioni esplicite, allora dobbiamo recuperare il suo primo film, Le iene, in cui Eddie Bunker – baffoni e cranio rasato – interpreta il fantomatico Mr. Blue.
Visto dall’alto il penitenziario di San Quintino potrebbe ricordare un formicaio. Il cortile brulica di persone che si muovono senza un ordine apparente. In realtà ogni percorso rispetta un complicato equilibrio territoriale: il carcere si suddivide in sfere d’influenza ben precise. Se si vuole sopravvivere occorre conoscere le regole di comportamento, perché entrare nel territorio sbagliato o pestare i piedi a qualcuno può costare molto caro. Insomma, per tenersi lontani dalle guerre razziali e dai regolamenti di conti bisogna conoscere la persona giusta. A San Quintino la persona giusta è Earl Copen, abituato a muoversi nei traffici sotterranei e stimato, grazie al suo carisma, anche dai secondini. Proprio a Earl si rivolge Ron Decker, giovane spacciatore di buona famiglia che si trova per la prima volta a fare i conti con il sottomondo del carcere.
Ron impara ben presto le strategie indispensabili per potersi muovere in un ambiente ostile. La Animal Factory trasforma gli uomini in bestie ma allo stesso tempo li costringe a confrontarsi con le motivazioni profonde che determinano i loro comportamenti. Il meccanismo descritto da Bunker è un circolo vizioso che mastica odio risputando violenza. Siamo negli anni settanta, le tensioni razziali e le rivendicazioni politiche che pervadono il mondo esterno vengono assorbite dal microcosmo carcerario e portate alle estreme conseguenze. Organizzati in bande che lottano strenuamente per il controllo dei principali canali di approvvigionamento di droga, i detenuti costituiscono una singolare società parallela che Bunker descrive in dettaglio (si sente che certe cose le ha vissute in prima persona). Una specie di mondo alla rovescia in cui le possibilità di sopravvivere sono commisurate alla capacità di conquistare un ruolo all’interno dell’ecosistema penitenziario. Quello che conta è saper decifrare gli indizi per prevedere tradimenti improvvisi o scoppi di violenza inaspettati: “Per un criminale, la paranoia è una componente essenziale”.
Difficile parlare di questo romanzo. Perché la scrittura diretta e essenziale del noir e della letteratura pulp viene messa al servizio di un’analisi molto lucida di quella che potremmo definire come una “psicologia della devianza”. Ma la devianza non è quella dei criminali: deviante è il sistema di valori del mondo esterno che immediatamente si replica all’interno del carcere. In fondo, le regole del gioco sono sempre le stesse. Ognuno ha il proprio ruolo, chi si ferma viene tagliato fuori, tenere sotto controllo il flusso dei messaggi è fondamentale. Il più forte è colui che sa passare da un contesto all’altro in modo dinamico e che riesce a interpretare le situazioni volgendole a proprio vantaggio.
L’amicizia tra Earl e Don si sviluppa in un tempo dilatato che occorre riempire in qualche modo. Il calendario scorre lentamente e i momenti che contano davvero sono quelli delle discussioni, delle letture, dei sanguinosi regolamenti di conti che si possono verificare da un momento all’altro. L’utopia rovesciata di Animal Factory è anche quella di un percorso di crescita che si sviluppa, paradossalmente, all’interno di un ambiente che schiaccia e distrugge la personalità degli individui. Potremmo pensare, dato il titolo, ad uno scenario alla Orwell. In realtà si tratta di un romanzo di formazione, qualcosa di molto vicino a quello che avrebbe potuto scrivere Thomas Mann dopo una passeggiata in un carcere californiano. Da provare assolutamente una lettura in parallelo con La montagna incantata: tra il Berghof e San Quintino c’è meno strada del previsto.
di Nicola Gaiarin