Horcynus Orca

Ricordo che nel 1974 o 1975 – vivevo allora in un luogo remoto, in America Latina, e uno dei pochi contatti con l’Italia era la lettura di Panorama, che ricevevo in abbonamento – lessi di un poeta di cui non sapevo nulla, era un articolo abbastanza breve, accompagnato da una foto. si diceva che Stefano D’Arrigo, sostenuto da anni dalla casa editrice Mondadori, stava uscendo dal gorgo, stava emergendo in qualche modo dal mare di quaderni e di fogli sparsi, stava portando a termine questo complesso e già leggendario romanzo, Horcynus Orca.
Lessi poi il romanzo. Devo ammettere che non l’ho letto dall’inizio alla fine. Devo ammettere che non gli ho ancora dedicato tempo ed attenzione. Devo ammettere che non lo conosco veramente.
Anche per questo sono colpito dal fatto che nel corso degli anni diversi amici, che ritengo fini lettori, mi hanno parlato con passione di Horcynus Orca. Per loro è un indiscutibile capolavoro. Si sa che uno dei veicoli che portano a scoprire – o riscoprire – i grandi libri, sono proprio gli amici. La personale biblioteca ideale di ognuno di noi è frutto di incroci con le biblioteche ideali degli amici con i quali condividiamo l’amore per la lettura e la letteratura.
Così attribuisco particolare valore al lento ma costante, crescente nel tempo, concentrarsi di opinioni lusinghiere, o entusiastiche, attorno ad Horcynus Orca.
Chiedo agli amici di scriverne.

Il più bel libro di tutta la “letteratura italiana”
di Claudio Cinti

Caro Francesco,
rispondo al tuo invito, e ti scrivo di questo libro. Ma non so che cosa ne scriverò, né come fare a “consigliarlo”. Scriverò di getto, così come mi viene, quel che in questo momento mi passa per la testa.
Dare consigli di lettura non è il mio forte e riceverne, di solito mi irrita. I libri, uno deve trovarli da sé, oppure accettarli in dono, ma a condizione che non si senta obbligato a leggerli. Questa è tutta la mia etica in fatto di libri. L’immagine del “lettore ideale” è per me quella di mio nonno Mario Cinti, che mi iniziò alla lettura senza consigliarmi e senza darmi lezioni. Non smetto mai di rivederlo, seduto sulla sedia a sdraio della cucina, con gli occhiali sulla punta del naso, un libro aperto fra le mani, altri due nelle tasche della giacca da camera annodata alla cintura; libri economici, quasi sempre comperati alle bancarelle, perché era quanto poteva permettersi negli anni ’60 un ferroviere in pensione. Così, ricordo, ebbi da lui Ventimila leghe sotto i mari (con il sorpendente commento: “Verne non è uno scrittore per bambini”), Il leopardo che mangiava uomini di Corbett, La meravigliosa storia del pupatto Pirolin (chi altri avrà mai letto questa fiaba inquietante, oltre lui e me), Guerra e pace (ma Tolstoj solo in prestito!) e poi Robinson Crusoe (un’edizione ridotta e illustrata, il libro su cui imparai a leggere) e naturalmente i Jack London, e i Salgari e i Verne e i Conrad considerati di prammatica per qualunque lettore in erba. Ma più che regalare libri comperati a proposito, mio nonno regalava (non solo a me: ricordo il suo infantile entusiasmo quando consegnò nelle mani di mia madre Il Gattopardo, letto in treno da Ancona a La Spezia, una volta che venne a farci visita) quelli che aveva appena letto, o riletto. Perse in un giorno la sua favolosa biblioteca, raccolta in sessant’anni e sopravvissuta a due guerre e agli stenti di una vita dignitosa, ma tribolata, a causa dell’alluvione di Ancona del ’59 eppure, chissà perché, non pensò mai a ricostruirla. La sua biblioteca si era trasformata nella minuscola cosa che portava nelle tasche: una cosa leggera, agile, mutevole, circolante. Un mese dopo l’alluvione, nacqui io.
Perché questo lungo “cappello”? Non solo per ricordare il mio amatissimo nonno, ma perché in qualche modo mi sono risentito in lui leggendo, anzi: rileggendo, questo libro di cui ieri ti ho detto a voce. Da lettore a lettore, caro Francesco, possiamo ben confessarci questo “vizio assurdo”, giustamente incomprensibile a chi non ce l’ha o non ha mai sognato di praticarlo: che le tappe significative della nostra esistenza non sono segnate sul calendario, ma contrassegnate dai libri con cui ci siamo letti dentro la storia che abbiamo finito per essere, rappresentare. Così io qui mi rappresento un giorno di maggio dell’88 quando, nella oggi estinta libreria Fagnani di Ancona (al suo posto è cresciuta una di quelle orride Feltrinelli con le vetrine stipate di mortadelle di giornata) raccolsi da un banco dei “metà prezzo” un bizzarro Oscar Mondadori con il disegno di un’orca sulla copertina bianca. Bizzarro, perché non voleva saperne di venir su tra le pile in cui era stivato; perché un Oscar di 1257 pagine, pesante come un “Millennio” Einaudi, io non l’avevo mai visto. “Che roba è, chi diavolo è questo sconosciutissimo scrittore italiano?”. Andai alla prima pagina, al primo paragrafo, e lessi: “Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi”
Un inizio così, nemmeno l’avevo letto mai. Potevano iniziare così, mi dissi, soltanto Omero, o Dante, o Melville. Ma neanche Kafka (Kafka! il fuoriclasse degli inizi), neanche Proust. Neanche la Recherche inizia così – e non devo certo spiegarti che cosa intendo con questo “così” – se un libro è libro, non può iniziare che così, con questo respiro libero e intransigente, con questa perfetta misura prosodica, con questo paragrafo che è cellula germinativa di tutto o che tale si lascia immaginare, ed è perciò che invita a proseguire. E difatti proseguii, all’impiedi, già più che sbalordito, con il librone in mano: “Imbruniva a vista d’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio flacco flacco dell’onda grigia, d’argento o di ferro, ripetuta a perdita d’occhio”.
Sai, mi rivengono i brividi ora, mentre trascrivo questi due paragrafi che so ormai quasi a memoria, come mi vennero allora che sentii le parole, i periodi entrarmi dentro per la prima volta, come onde, come onde portate da uno “sventolio flacco flacco”, onde di mare senza equivoco, senza sbaglio, perché solo il mare entra così, “senza mutamento alcuno”, solo il mare ti entra dentro “ieri, oggi, domani” e dunque per sempre una volta che l’hai visto e sentito (da bambino a mano di tuo nonno che ti portava a “vedere il mare” lungo i moli di Ancona e La Spezia), e poi rivisto e risentito (da adulto, da bambino, ovunque fosse possibile essere un po’ soli) sulle pagine dei libri che l’hanno ventilato e “allisciato” ai tuoi bisogni di “calmerìa”, ai tuoi desideri di alitarlo e di ripeterlo e di riceverlo in dono per sempre, “a perdita d’occhio”.
Dunque un libro di mare, un (altro) libro sul mare, mi dissi, quasi indovinando. In realtà, un libro con il mare: “Solo da alcune ore, anche se lo scirocco era sempre quello e anzi aveva infocato la posta, aveva cominciato sotto sotto ad allionirsi. Era stato naturalmente nel farsi da mare rema, intrigato e invelenito alle prime tormentose serpentine di spurghi e di rifiuti, simili a gigantesche murene che egli, col suo occhio di conoscitore, andava scandagliando dal colore diverso, come di pietra muschiata, gelido e rabbrividente. Era stato, perciò, dopo che le Isole erano scomparse alla sua vista…”. Un libro con il mare, cioè dentro il mare. E se un simile libro iniziava così, non era ovvio che così doveva finire? Non so bene come spiegare la mia emozione, il mio stupore, la mia eccitazione: perché questo libro era “fatto per me”, era già mio più che in mano mia, mi aveva “giudicato” dal primo momento, col suo spessore fisico e col suo incomparabile inizio, e dal primo momento e dall’inizio io me l’ero… aggiudicato. Non per smania di sapere come sarebbe andata a finire una vicenda di cui non sapevo ancor nulla – tranne il nome del protagonista: ’Ndrja Cambrìa – ma per ricavare conferma che mi trovavo davvero “intrigato” con il mare di questo libro, dentro quel mare che iniziava il mio “occhio di conoscitore” (di libri di mare) a nuove e impensabili, forse “tormentose serpentine” di immagini e figurazioni (del mare: prendi per esempio quelle espressioni ignote ma così musicali, che ti ti scandagliano e ti tirano dentro: “calmerìa di scirocco”, “allionirsi”, “mare in rema”); non per smania, dunque, andai all’ultimo paragafo dell’ultima pagina, e lessi: “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare”.
Ecco, Francesco, se si può mai suggerire l’immagine di una esperienza di lettura, la mia, con Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, ebbene essa è ancora tutta dentro il petto, calda e spezzata, tra quell’inizio e quella fine. Ancora adesso, che sto rileggendo questo libro dopo quasi vent’anni dalla prima volta, da quell’indimenticabile mese di maggio dell’88, mi sento tutto preso, compreso, anzi: orcinusamente pigliato tra inizio e fine: “dentro, più dentro, dove il mare è mare”. Ma che cosa c’è “in mezzo” a questo libro formidabile, prodigioso, il più bel libro che io, adesso, sì, adesso posso confessare di aver avuto la ventura di leggere e che leggerò mai, te lo dico lucidamente e a cuore aperto, anche dopo Kafka, e Joyce, e Proust, e Musil, e Saenz, e Lezama, e Cabrera… Anche dopo Dante e Omero. Beh, della mia esperienza emotiva con lui hai appena avuto un (poco pudibondo, scusami) assaggio; di quella “intellettuale”… chissà. Oggi, naturalmente, “so tutto” di D’Arrigo, nei vent’anni trascorsi dalla prima alla seconda lettura ho avuto modo di “informarmi”. E ho letto qualche saggio e altri ne leggerò, e ho letto gli altri suoi due (piccoli: a paragone dell’Orca, ma quasi altrettanto meravigliosi) libri. E ho letto tanti altri bellissimi libri, e alcuni ne ho perfino tradotti. Tanti, tanti libri. Ma come Horcynus Orca…
In mezzo al capolavoro di Stefano D’Arrigo c’è un libro che tutto si tiene, e mi tiene, di nuovo, dall’inizio alla fine, senza una sbavatura, senza una “caduta”, riempiendomi tutto, facendomi godere come per un… amplesso fisico o musicale! Lo so, si tratta del “vizio assurdo”, chi ce l’ha mi capirà, per chi non lo pratica sarebbe come dire: puro Mozart, non una nota in più, non una pausa in meno; puro amore per la creatura con cui stai facendo all’amore, non un gesto di più, non un bacio, non una carezza di meno (pensa, mi sono sorpreso a leggerlo ad alta voce questo mio libro, a trovare senza sforzo una cadenza “siciliana”, un tono vocalico aperto, ora calmo, ora concitato, insomma “maremotoso”… Nulla di difficile per me che sono “transitaliano” e ho la fortuna di avere dentro un po’ tutte le “parlate” di questo nostro Paese; ma nulla di difficile, ne sono certo, per chiunque si accosterà a questo libro così leggibile, così intenso e bello, senza pregiudizi, senza pigrizia, senza facile negligenza. Perché è come sentire di far musica anche se non la si sa; è come sentire la gioia di star facendo all’amore con la cratura che ami, e questo, chi non lo sa? Kafka sognava di leggere il “suo” Flaubert così, e io, pensa ho letto il mio D’Arrigo proprio così!). Il povero Pontiggia, pur così bravo a seguire il libro nel suo farsi, e a sostenerlo mentre l’Autore, per più di quindici anni, lo sfaceva e rifaceva, non aveva capito un bel nulla, per esempio, del criticatissimo “episodio dello sperone”: trecento pagine di epos sospese a un sospiro di Luigi Orioles – il vecchio “pellesquadra” amico e “idolo” di ’Ndrja Cambria: Luigi Orioles, personaggio meraviglioso, gigantesco in tutta la “storia della letteratura mondiale”, come Ciccina Circé, del resto, quella “millunanotte” grazie alla quale almeno il suo inventore ha ricevuto in premio un po’ di fama – allo “straviamento” di don Luigi e alla sua parziale resurrezione. Trecento pagine mirabili, incomparabili, tenute con una maestria, con un’arte, con una sensibilità per le più deboli, inavvertibili, ineffabili vibrazioni dell’animo umano che… Direbbe Elias Canetti: soltanto Michelangiolo! Forse, in letteratura, Dante soltanto. E non ne sono affatto sicuro.
Ora non parlerò – non mi interessa proprio – delle stroncature a suo tempo portate dai neghittosi Citati e Siciliano, pestifere mediocrità, eterni boiardi dell’industria culturale, manutengoli degli scalfari o dei calassi alla moda, pennivendoli delle terzepagine e delle rubriche affini (è certo, è provato, è gente che tira il calesse di questo o quel calasso). Ma ti voglio riferire le parole del povero Cacciari, uno che purtroppo si è messo a fare il Sindaco, quando gli chiesi un giudizio sul libro di D’Arrigo (si era nell’88). Cacciari, che ho sempre ammirato e stimato e per il quale non posso che nutrire riconoscenza: uno che pur senza volerlo né saperlo ha contribuito a consolidare quel po’ di formazione culturale che ho, al tempo in cui teneva le sue generose lezioni all’Università di Venezia. Cacciari mi disse papale papale che secondo lui il libro “picchiava in testa”. Curioso, no? almeno per un confesso appassionato di Robert Musil, straordinario autore di un libro straordinario che ha tra le sue qualità distintive proprio quella di picchiare ossessivamente in testa. Tanto più curioso per uno che di lì a pochi anni pubblicherà un (importante) libro di filosofia politica come L’Arcipelago. Lì ovviamente, non una parola su Horcynus Orca, neanche in nota. Forse, più che curioso, sintomatico della tristezza, supponenza, ignoranza, provincialità che delineano il “panorama” delle nostre “lettere” – anche nelle loro “cime” migliori. Ma come, la “letteratura italiana” ha “prodotto” un libro come Horcynus Orca e uno come Cacciari manco ne parla? Certo, pazienza, e peggio per lui (“continuiamo a farci del male”, come dice Nanni Moretti), ma da gente come Massimo Cacciari, o Claudio Magris – non dico mica dai calassi – sarebbe lecito aspettarsi che se ne parli. Io ne parlo ogni volta che posso con i miei amici scrittori boliviani, colombiani, argentini, ma a che pro’? Non certo per dare un consiglio. Gli orripilanti Baricco e Tamaro sono tradotti in tutte le lingue del mondo (povero mondo). Quanto dovremo aspettare ancora prima di potergli far conoscere Stefano D’Arrigo?
Per fortuna altri ne parlano, meno popolari di quelli, sicuramente molto meglio di quanto sappia fare io. Ora, avrai capito che per me, “in mezzo”, per il momento, c’è solo il mio, non solo entusiastico, ma più che meditato, meditato da vent’anni, invito a leggere il più bel libro di tutta la “letteratura italiana”. Non entrerebbe nelle tasche di una giaccca da camera, e nemmeno in quelle di un cappotto. Ma so che mio nonno, se avesse avuto la possibilità di vederlo (il libro uscì nel ’75, lui morì nel ’71, l’edizione in Oscar è dell’82) l’avrebbe raccolto dal banco dei “metà prezzo” e portato con sé sulla sedia a sdraio. So che nessun “consiglio di lettura” potrà mai valere per me quanto l’immagine di quel mite, bonario, anziano signore intento a misurare le tappe della sua sobria esistenza attraverso il più “allianante” degli esercizi umani: la lettura di un bel libro. E dunque, a mia volta, come e a chi “consigliare”? Sarò riuscito a trasmetterti almeno quella immagine? Potrò cominciare a contarti, “ieri, oggi, domani”, tra gli ancor troppo pochi lettori di Horcynus Orca?

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